onde

N.23 Settembre 2021

ONDA D'URTO

Beirut, ritrovare una Patria dopo il boato devastante

Rabhi Kayruz ha sentito l'esplosione del porto di Beirut dalla sua nuova vita in Italia e ha riscoperto la speranza di un altro futuro per il suo Libano

Il porto di Beirut distrutto dall'esplosione del 4 agosto 2020 (Wikipedia

Beirut, 4 agosto 2020. Alle 18.04 una deflagrazione improvvisa, accompagnata da un boato, scuote il porto della capitale libanese. Un’onda d’urto immensa – fatta di fiamme, detriti, schegge impazzite – travolge i quartieri circostanti distruggendo ogni cosa: negozi, case, automobili, scuole, palazzi. E uccidendo 164 persone, anche se il conto esatto delle vittime non si saprà mai.
In Italia Rabhi Kayruz sta visitando il Mart di Trento-Rovereto, insieme alla famiglia: moglie e quattro figli. Mentre commenta con ironia uno dei dipinti di arte contemporanea, il cellulare comincia a squillare insistentemente. Le notifiche su whatsapp si moltiplicano e d’improvviso quell’onda colpisce anche lui. Perché se anche ha lasciato il Paese dei Cedri da moltissimo tempo (vive e lavora nel cremonese dal 2003), il Libano rimane casa sua. «Sono venuto via dal mio Paese perché ero deluso dalla politica, dall’alto livello di corruzione, dalla crisi economica e dal rischio di nuovi conflitti. I primi anni, arrivato in Italia, guardavo sempre i telegiornali libanesi per tenermi informato su quello che accadeva, ma col tempo avevo smesso di seguirli. Di anno in anno le notizie erano sempre le stesse, se non peggiori. Certo, parte della mia famiglia – siamo originari del Nord, in una zona vicino alla valle dei Cedri – vive ancora lì ma mi faceva male sentire ogni giorno che le cose precipitavano. Poi l’anno scorso – racconta – è successo qualcosa: prima le democratiche proteste di popolo che hanno riempito le strade di Beirut, in un sussulto di dignità come non si vedeva da tempo. E poi sì, l’esplosione al porto… È come se avessero risvegliato in me un dolore profondo, ma anche l’amore per il mio Paese d’origine».

La mattina del disastro la sorella di Rabhi si trovava in città: per poche ore non ha rischiato di essere anche lei tra i morti di quel giorno. «È stata una grazia che se ne sia andata in tempo».
Di quelle ore tremende tutti i telegiornali del mondo hanno riportato le drammatiche immagini, ma in pochi sanno del “dopo”. Un dopo fatto di fatiche («un giusto processo non ci sarà mai, la verità non la sapremo mai perché gli interessi politici in gioco sono troppi», spiega ancora Rabhi) ma anche di speranza: ed è nelle centinaia di giovani che fin da subito si sono mossi per ripulire l’area e poi le ong e le associazioni che si sono impegnate per la ricostruzione nei quartieri più colpiti come quelli di Geitawi, Bourj Hammoud e Achrafieh.
La situazione politica non è cambiata: proprio nei giorni scorsi si è insediato l’ennesimo Governo ostaggio di rivalità e fazioni politico-religiose che tengono in scacco da decenni quella che un tempo veniva chiamata “la Svizzera del Medio Oriente”. Ma la speranza – dice Rabhi – «è che quei giovani scesi in piazza per amore alla democrazia continuino su quella strada. Una strada che è l’unica alternativa alla violenza e alla guerra civile, due realtà che il Libano ha conosciuto fin troppo bene».
Così l’esplosione al porto con la sua potenza devastante ha contribuito a risvegliare l’orgoglio e l’amore per una patria che merita di più e che potrà ripartire solo dalle nuove generazioni. Proprio come un sasso gettato nell’acqua, con i cerchi che si allargano a disegnare un futuro imprevedibile ma migliore del presente.